Falkenbach – “Ok Nefna Tysvar Ty” (2003)

Artist: Falkenbach
Title: Ok Nefna Tysvar Ty
Label: Napalm Records
Year: 2003
Genre: Viking/Folk Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Vanadis”
2. “…As Long As Winds Will Blow…”
3. “Aduatuza”
4. “Donar’s Oak”
5. “…The Ardent Awaited Land”
6. “Homeward Shore”
7. “Farewell”

Le calme acque smosse appena dalle correnti incrociate di Baltico e Mare del Nord sbattono tenui contro le scogliere, sicuri bastioni della Fortezza Europa i quali per millenni hanno resistito a quell’incessante battito vitale intrecciatosi all’ondeggiante fischio del vento irrorato di salsedine. Stormi di uccelli marini volteggiano nel cielo mattutino salutando con stridii e battiti d’ala l’ancora vivido sole d’inizio autunno, mentre sulla costa piccole comunità di cacciatori e raccoglitori mandano avanti l’eterna ruota del tempo svolgendo tranquilli le loro attività, con da una parte l’innocente giocare dei più piccoli e dall’altra il sereno discorrere degli anziani. Questi ultimi in particolare, seduti in cerchio sotto ad alberi cui essi riconoscono un potere arcano e misterioso, non mancano di avvistare al largo grossi nuvoloni neri i quali, seppur lontani e non pericolosi nell’immediato per gli abitanti di quelle zone, non possono non ricordare loro le fatiche, le privazioni e le angosce patite nell’arco di un’intera esistenza. Non vi è però alcuna paura nei loro cuori, consci come sono che ciò che quelle nubi rappresentano è parte inestricabile della vita umana, e certi che gli uomini e le donne membri delle comunità di cui essi fanno parte sapranno tenervi testa con la sola forza di una civiltà, dei suoi miti e delle sue tradizioni; finché il vento continuerà a soffiare guidandoli verso una nuova terra ardentemente attesa.

Il logo della band

Sono trascorsi un lustro e qualche mese dal capolavoro …Magni Blandinn Ok Megintíri…”, e la morfologia del metallo pagano si è nel frattempo evoluta con una rapidità e varietà a dir poco sorprendente sull’onda di tutte le pietre miliari poste sulla strada nel corso di quel lustro: l’impeto muscolare di 1184″ e Dödsfärd”, l’epicità di “Voimasta Ja Kunniasta”, fino agli ancora embrionali esperimenti di natura se vogliamo più artsy su “Monumension” e “Vansinnesvisor”, sono tutte aggiunte che anche soltanto nel fondativo 1997 sarebbero appunto state ritenute quantomeno aliene nell’ambito di un sottogenere nato come spontanea digressione nel passato più remoto scandinavo, ed ora invece affrancatosi dallo scarno sound Black Metal per diventarne una vera e propria scena parallela.
Una volta reciso il cordone ombelicale, ci pensano dunque i vari Månegarm e Moonsorrow a pompare le proprie produzioni gonfiandone chi le superlative tastiere, chi le ringhianti chitarre e chi le voci ribassate tanto in pulito quanto in semi-growl, col risultato di tracciare nuove coordinate rimandanti ai distanti mondi Heavy, Epic e talvolta anche Doom. Mentre tutto ciò accade, nei boschi della Germania più profonda un lupo solitario battezzatosi Vratyas Vakyas volge lo sguardo alla sua emanazione artistica Falkenbach, e la trova non esattamente adatta ad una simile corsa all’ipertrofia sonora: trattasi infatti di un progetto personale certamente maturissimo in termini qualitativi, e tuttavia amministrato da un uomo solo al comando e rinchiuso tra le quattro mura dei Blue House Studios, la cui povertà in quanto a mezzi è stata ai tempi l’ingrediente segreto per l’irripetibile predecessore ma potrebbe ora rivelarsi una zavorra considerevole, anche a fronte di una Napalm Records -alle superate porte del nuovo millennio- già tentata da Folk di quart’ordine, Power cammuffatosi mediante bigiotteria gotica e brutture analoghe. L’idea del mastermind, non troppo dissimile da quella avuta qualche anno innanzi da un certo collega chiamato Valfar, è allora quella di introdurre ulteriore materia viva e pulsante nella sua creatura attraverso nuovi innesti in line-up, e da essi trarre l’energia necessaria per un terzo disco in grado di continuare il suo percorso di luminosa apertura volto non alla blanda semplificazione a fini commerciali, bensì alla salvaguardia della propria ditintiva unicità all’interno del genere.

Vratyas Vakyas

Da un punto di vista prettamente stilistico, difatti, “Ok Nefna Tysvar Ty” non impone alcun significativo cambio di rotta lungo il sentiero imboccato da Markus Tümmers, ed anzi ne sfoga semmai il sostanzioso potenziale aggiornandolo al Nuovo Millennio (grazie per esempio ad una batteria finalmente analogica percossa dalle bacchette del capace Boltthorn), mentre dietro la plancia di comando l’eremita della Vestfalia è adesso affiancato da Patrick “Hagalaz” Damiani (quest’ultimo impegnato anche con le chitarre acustiche, nonché prossimo a prestare i suoi servigi pure alla corte del rinomato cantautore lussemburghese Jérôme “Rome” Reuter, nome ormai niente affatto estraneo al pubblico estremo).
Da scalcinato giocattolo in pugno al proprio deus ex machina, il nome Falkenbach si evolve pertanto in qualcosa di più simile ad un complesso fatto e finito ove Vratyas Vakyas, pur mantenendo saldo lo status di solo membro ufficiale e mente compositiva, non esita a sfruttare la fresca manovalanza d’arrangiamento ed input per intensificare i colori caldi ed i profumi suadenti evocati dalla sua musica. In particolare la presenza di Hagalaz e dell’altra new entry Tyrann (prestatosi in qualità di seconda voce) accentua la componente folkloristica del monicker, conservando le partiture quadrate ed al contempo ampliandone il soundscape sin dall’introduttiva “Vanadis”: questa, già da sola, una perla tra le migliori di sempre del progetto nonché degna di una intera carriera col suo saltare dalle bucoliche pennellate dei flauti ai minacciosi sussulti di tastiera. La produzione a quattro mani figlia dei Tidalwave Studios di Karlsruhe eleva nel mentre al cubo il respiro degli strumenti cosiddetti aggiuntivi, tanto che senza un simile upgrade risolutivo -per quanto sempre figlio dei suoi tempi- difficilmente avrebbero funzionato allo stesso modo la toccante “…As Long As Wind Will Blow…”, consacrazione dei nuovi arrivati col suo volteggiare acustico a più voci attorno al fuoco acceso in riva al mare, o la trionfale punta di lancia “Donar’s Oak”, provvista di un ritornello da autentici brividi saccheggiato dai versi quarto e quinto del Grímnismál e di un’andatura quasi New-Wave che è merito anche e soprattutto del drummer appena acquisito. Il padrone di casa non si risparmia nemmeno una “Homeward Shore” vincitrice assoluta dell’ipotetico premio di miglior canzone di Quorthon a non essere uscita dalla penna di Quorthon, mentre i giri melodici imponenti di “Farewell” restituiscono, nella figura di una madre e del suo composto dolore per la perdita del figlio, l’intero senso artistico dietro “Ok Nefna Tysvar Ty” e la visione stoica alla base degli sforzi creativi di Falkenbach: sciocco è chi rifugge, nega e sminuisce le asperità disseminate sul suo cammino, poiché egli non saprà mai dare il giusto valore alle gioie quando sarà finalmente giunto il momento per esse.

La terra ardentemente attesa, la cui conquista veniva profetizzata sul finire dell’ormai lontano debut “…En Their Medh Riki Fara…”, è stata quindi nel 2003 raggiunta: viene ora dipinta in ogni sua possibile sfumatura, che sia cupa o lucente; che sia dai tre minuti e mezzo emozionanti a dir poco dell’eponimo pezzo a metà scaletta o nella lunghezza di un’opener come pochissime – non si tratta di un’idealizzazione, di un Eden qualsiasi dove ciò che ci è avverso semplicemente scompare, ma di una dimensione di totale innalzamento dell’esperienza umana in cui i sensi si acuiscono, e chi vi entra riesce a distaccarsi dal bieco utilitarismo della contemporaneità lasciandosi alle spalle l’opaco vivere odierno, per fuggire alla volta di altri tempi ed altri mondi dove ogni tinta chiara o scura dell’esistenza risplende alla stessa maniera.
Questo è, pur con qualche licenza poetica, “Ok Nefna Tysvar Ty”: un lavoro che dalla coeva sete di modernità contagiante persino un sottogenere tanto legato al passatismo ha tirato fuori, benché tra formazioni aggiornate e registrazioni professionali, un’espressione del reame Falkenbach addirittura più pura di quelle assemblate in solitudine dall’ideatore stesso del progetto. Lo ribadiscono in fin dei conti “Heralding – The Fireblade” ed il suo ritorno alle origini verificatosi un biennio dopo, scelta obbligata sia dall’irresistibile tentazione di rileggere con lenti ripulite i primi passi del progetto, sia dal riconoscimento da parte di Vratyas Vakyas del proprio terzogenito quale forse vetta ultima della propria poetica: incontaminata, inconfondibile, ed inavvicinabile.

Michele “Ordog” Finelli

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